di Barbara Mapelli
Per oltre 50 anni il territorio triestino è stato devastato da ogni sorta di rifiuto. Fanghi industriali, residuati bellici, scorie radioattive, armi chimiche, gas tossici (ossidi di azoto, ossidi di zolfo, cloruri, fluoruri), diossine e metalli pesanti provenienti da varie parti d’Italia. Un piccolo lembo di terra utilizzato come punto strategico per il traffico di rifiuti tossico nocivo a livello internazionale.
Nel 1954, con il Memorandum di Londra, il Territorio Libero di Trieste viene dato in amministrazione fiduciaria al Governo italiano. Poco tempo dopo, le amministrazioni pubbliche decidono di realizzare grandi discariche, dal mare (intero arco costiero di Barcola, porto franco nord, fino al confine con la Slovenia) all’altopiano carsico che ben si adattava a far “sparire” rifiuti di ogni tipo. Il così detto “Sistema Trieste”, ossia l’intreccio tra politica, economia e criminalità organizzata, come definito dall’ambientalista dell’associazione triestina Greenaction Trasnational Roberto Giurastante, mise in atto quel processo di smaltimento incontrollato di rifiuti. Doline e grotte sono state riempite prevalentemente da idrocarburi, acidi, fanghi industriali, esplosivi e materiale radioattivo. I mezzi pesanti che trasportavano i rifiuti “speciali”, venivano scortati dalle forze dell’ordine fino alle doline in cui venivano scaricati.
Delle 2695 cavità registrate dal Catasto regionale delle grotte, 128 risultano essere particolarmente inquinate, 247 non sono più accessibili e 19 non c’è ne più traccia. Un esempio è il Pozzo del Cristo, una cavità a sviluppo orizzontale e verticale profonda 65 metri, dotata di un comodo bocchettone per lo scarico di nafta, idrocarburi, residui lavorazioni industriali e olii esausti; il pozzo dei Colombi, cavità di 45 metri in cui venne gettato il terreno contaminato dal petrolio dopo l’attentato del 1972 di “Settembre nero” all’oleodotto di San Dorligo, e immense quantità di fanghi industriali e sostanze chimiche; o la caverna presso la 17 VG riempita da nafta e residui oleosi.
L’epicentro di questa devastazione è stata la ex discarica RSU (rifiuti solidi urbani) di Trebiciano, gestita dal comune di Trieste dal 1958 al 1972. Su un area di 120.000 mq, sono stati scaricati 600.000 metri cubi di rifiuti di ogni tipo compresi i fusti contenti armi chimiche dell’ex arsenale italiano.
All’interno del “sistema”, il porto franco internazionale di Trieste aveva un ruolo importante e strategico. Qui infatti, arrivavano i rifiuti tossici che dovevano essere poi trasportati in altre aree e scaricati nell’ambiente, in particolare in Somalia, e di armi, come raccontato nel memoriale presentato dall’ex boss della ‘ndrangheta calabrese Francesco Fonti alla Direzione nazionale antimafia e pubblicato nel 2005 da “L’Espresso”.
Quello triestino è stato un inquinamento di Stato pianificato e perpetuato nel tempo ai danni di una popolazione indifesa e che l’ha portata ai vertici delle classifiche per mortalità tumorale.